CARCANO "TYPE I"
Foto di J. Anderson
I giapponesi indicavano il "Tipo I" con diverse nomenclature, in diversi documenti e rapporti.
I più comuni sono “fucile di tipo italiano” (イ式小銃), “fucile italiano” (伊式小銃) o “fucile modificato di fabbricazione italiana” (伊太利製改造小銃).
Lo si può spesso trovare sul mercato collezionistico e divulgativo come "Carcano-Arisaka", "Arisaka italiano" o "Carcano giapponese".
Quest'arma è rimasta un mistero per decenni: si trattava di un'arma prodotta in Italia, su richiesta giapponese, per armare pochissime unità giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Per decenni si è pensato ad un contratto della Marina Giapponese, in quanto la gran parte di queste armi venne ritrovato dai soldati Americani nelle mani di diverse unità della Marina Imperiale giapponese.
Recenti indagini negli archivi giapponesi (liberamente accessibili tramite il loro database Internet), avviate dai collezionisti e ricercatori Aaron Zou e J. Anderson insieme ad alcuni collaboratori, hanno finalmente offerto alcune risposte a questo enigma orientale.
I più comuni sono “fucile di tipo italiano” (イ式小銃), “fucile italiano” (伊式小銃) o “fucile modificato di fabbricazione italiana” (伊太利製改造小銃).
Lo si può spesso trovare sul mercato collezionistico e divulgativo come "Carcano-Arisaka", "Arisaka italiano" o "Carcano giapponese".
Quest'arma è rimasta un mistero per decenni: si trattava di un'arma prodotta in Italia, su richiesta giapponese, per armare pochissime unità giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Per decenni si è pensato ad un contratto della Marina Giapponese, in quanto la gran parte di queste armi venne ritrovato dai soldati Americani nelle mani di diverse unità della Marina Imperiale giapponese.
Recenti indagini negli archivi giapponesi (liberamente accessibili tramite il loro database Internet), avviate dai collezionisti e ricercatori Aaron Zou e J. Anderson insieme ad alcuni collaboratori, hanno finalmente offerto alcune risposte a questo enigma orientale.
CENNI STORICI
La storia del Tipo I ha inizio intorno al 1937, quando i diplomatici italiani e giapponesi stavano cercando di stringere legami più forti con la Germania di Hitler.
Fino al 1936 e alla campagna d'Etiopia, Mussolini vedeva Hitler come un problema non indifferente, sia per lo scacchiere europeo che per gli interessi diretti dell'Italia.
Hitler, infatti, voleva estendere i confini tedeschi annettendo l'Austria, da anni nazione amica dell'Italia (ci tentarono già nel 1934 e solo l'intervento di Mussolini, schierando l'esercito al confine, riuscì ad impedirlo), ed espandere l'influenza tedesca nel bacino del Danubio e nei Balcani.
In particolare, Mussolini non vedeva di buon occhio il fatto che Hitler, per raggiungere questi obbiettivi, stesse stringendo solide relazioni diplomatiche con il Regno di Jugoslavia, principale antagonista delle mire italiane nei Balcani.
L'Italia, invece, si stava allineando diplomaticamente alla Francia dopo il 9 ottobre 1934, quando il re di Jugoslavia Alessandro I venne assassinato a Marsiglia, insieme al ministro degli Esteri francese anti-italiano Barthou.
Il nuovo ministro degli Esteri francese, Laval, voleva l’Italia al suo fianco in una coalizione antitedesca, e sembrava che la cosa potesse funzionare; ma, quando Mussolini decise di invadere l’Etiopia per aumentare la sua popolarità, la Francia non ebbe altra scelta che unirsi all’Inghilterra e al resto della diplomazia internazionale nel sanzionare l’aggressione dell’Italia ad un paese libero e membro della Società delle Nazioni.
Questo isolamento diplomatico portò Mussolini a riconsiderare i rapporti con la Germania di Hitler, e, così, la politica italiana andò lentamente ad allinearsi con quella tedesca. La Germania riconobbe l'annessione italiana dell'Etiopia il 24 ottobre 1936 e, il giorno successivo, i due paesi firmarono i Protocolli di Berlino, un trattato di amicizia e cooperazione, che gettarono le basi dell'Asse.
Il Giappone temeva a sua volta un isolamento diplomatico: dopo l’invasione della Manciuria nel 1931, criticata e sanzionata a livello internazionale (invasione scatenata dalla semi-autonoma armata del Kwantung), il Paese del Sol Levante dovette trovare un modo per giustificare il suo espansionismo in Asia. Nel 1932 creò lo Stato del Manchukuo, mettendone a capo l’ex imperatore cinese PuYi, in modo da giustificare agli occhi dell'opinione pubblica internazionale il nuovo stato.
Naturalmente il Manchukuo era solo uno stato fantoccio, completamente nelle mani del Giappone e dell'armata del Kwantung.
Quando nel 1935 la Germania firmò un patto navale con la Gran Bretagna, nella vaga speranza di allontanare il Regno Unito dalla sua alleanza con la Francia, la paura giapponese di un isolamento internazionale divenne ancora più forte.
Le relazioni diplomatiche tra la Germania e il Giappone non erano mai state veramente positive, soprattutto perché la Germania aveva enormi interessi e legami militari con il principale antagonista del Giappone, la Cina Nazionalista di Chiang Kai-shek, ma la paura di un'intesa anglo-tedesca era così grande da tentare politiche simili da parte della diplomazia nipponica.
Fortunatamente, il Giappone trovò un forte alleato in questa impresa in Joachim Von Ribbentrop, che, nonostante non fosse ancora ministro degli Esteri, aveva una grande influenza sulle decisioni di Hitler in fatto politica estera. Ribbentrop riuscì a spingere Hitler e i vecchi ministri e generali prussiani a stringere legami più stretti con il Giappone, sostenendo che avessero bisogno di formare un'alleanza antisovietica. Per convincerli presentò prove tangibili di questa necessità, tra cui il fatto che, nel 1936, l’Unione Sovietica aveva appena lanciato il suo primo grande intervento internazionale, dopo più di dieci anni di quiescenza, aiutando apertamente la Spagna repubblicana inviando carri armati, uomini e armi.
Questo scambio diplomatico tra Germania e Giappone culminò nel patto Anti-Comintern, firmato il 25 novembre 1936; Ribbentrop e Hitler dichiararono apertamente che presto anche l'Italia vi avrebbe aderito.
Fino al 1936 e alla campagna d'Etiopia, Mussolini vedeva Hitler come un problema non indifferente, sia per lo scacchiere europeo che per gli interessi diretti dell'Italia.
Hitler, infatti, voleva estendere i confini tedeschi annettendo l'Austria, da anni nazione amica dell'Italia (ci tentarono già nel 1934 e solo l'intervento di Mussolini, schierando l'esercito al confine, riuscì ad impedirlo), ed espandere l'influenza tedesca nel bacino del Danubio e nei Balcani.
In particolare, Mussolini non vedeva di buon occhio il fatto che Hitler, per raggiungere questi obbiettivi, stesse stringendo solide relazioni diplomatiche con il Regno di Jugoslavia, principale antagonista delle mire italiane nei Balcani.
L'Italia, invece, si stava allineando diplomaticamente alla Francia dopo il 9 ottobre 1934, quando il re di Jugoslavia Alessandro I venne assassinato a Marsiglia, insieme al ministro degli Esteri francese anti-italiano Barthou.
Il nuovo ministro degli Esteri francese, Laval, voleva l’Italia al suo fianco in una coalizione antitedesca, e sembrava che la cosa potesse funzionare; ma, quando Mussolini decise di invadere l’Etiopia per aumentare la sua popolarità, la Francia non ebbe altra scelta che unirsi all’Inghilterra e al resto della diplomazia internazionale nel sanzionare l’aggressione dell’Italia ad un paese libero e membro della Società delle Nazioni.
Questo isolamento diplomatico portò Mussolini a riconsiderare i rapporti con la Germania di Hitler, e, così, la politica italiana andò lentamente ad allinearsi con quella tedesca. La Germania riconobbe l'annessione italiana dell'Etiopia il 24 ottobre 1936 e, il giorno successivo, i due paesi firmarono i Protocolli di Berlino, un trattato di amicizia e cooperazione, che gettarono le basi dell'Asse.
Il Giappone temeva a sua volta un isolamento diplomatico: dopo l’invasione della Manciuria nel 1931, criticata e sanzionata a livello internazionale (invasione scatenata dalla semi-autonoma armata del Kwantung), il Paese del Sol Levante dovette trovare un modo per giustificare il suo espansionismo in Asia. Nel 1932 creò lo Stato del Manchukuo, mettendone a capo l’ex imperatore cinese PuYi, in modo da giustificare agli occhi dell'opinione pubblica internazionale il nuovo stato.
Naturalmente il Manchukuo era solo uno stato fantoccio, completamente nelle mani del Giappone e dell'armata del Kwantung.
Quando nel 1935 la Germania firmò un patto navale con la Gran Bretagna, nella vaga speranza di allontanare il Regno Unito dalla sua alleanza con la Francia, la paura giapponese di un isolamento internazionale divenne ancora più forte.
Le relazioni diplomatiche tra la Germania e il Giappone non erano mai state veramente positive, soprattutto perché la Germania aveva enormi interessi e legami militari con il principale antagonista del Giappone, la Cina Nazionalista di Chiang Kai-shek, ma la paura di un'intesa anglo-tedesca era così grande da tentare politiche simili da parte della diplomazia nipponica.
Fortunatamente, il Giappone trovò un forte alleato in questa impresa in Joachim Von Ribbentrop, che, nonostante non fosse ancora ministro degli Esteri, aveva una grande influenza sulle decisioni di Hitler in fatto politica estera. Ribbentrop riuscì a spingere Hitler e i vecchi ministri e generali prussiani a stringere legami più stretti con il Giappone, sostenendo che avessero bisogno di formare un'alleanza antisovietica. Per convincerli presentò prove tangibili di questa necessità, tra cui il fatto che, nel 1936, l’Unione Sovietica aveva appena lanciato il suo primo grande intervento internazionale, dopo più di dieci anni di quiescenza, aiutando apertamente la Spagna repubblicana inviando carri armati, uomini e armi.
Questo scambio diplomatico tra Germania e Giappone culminò nel patto Anti-Comintern, firmato il 25 novembre 1936; Ribbentrop e Hitler dichiararono apertamente che presto anche l'Italia vi avrebbe aderito.
Così il Giappone cominciò a intessere migliori rapporti diplomatici anche verso l’Italia, per ragioni molto simili a quelle che lo spinsero verso la Germania: creare migliori rapporti internazionali, ottenere competenze tecnologiche (soprattutto legate al mondo dell'aviazione moderna), anche nella speranza che l’Italia tagliasse definitivamente i suoi accordi commerciali con la Cina per le forniture militari .
Un altro obiettivo importante nel tessere legami diplomatici con l’Italia era il disperato bisogno del Giappone di vedere riconosciuto a livello internazionale il suo stato fantoccio del Manchukuo. Nel febbraio 1937, per indurre l'Italia a riconoscere prima lo Stato del Manchukuo e ad aderire al patto Anti-Comintern, il Ministero della Difesa giapponese sollecitò il Ministro degli Esteri ad aprire delle trattative commerciali. Nel giugno-luglio dello stesso anno, il Ministero della Difesa cominciò a siglare trattati commerciali a nome dello Stato del Manchukuo, accompagnati da altri ordini per le forze armate nipponiche, come l’acquisto di 72 aerei ultramoderni Fiat BR.20 "Cicogna", con motori di riserva, armamentario e parti di ricambio. |
Un bombardiere Fiat BR 20 "Cicogna"
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L'Italia accettò volentieri queste proposte, abbandondonando i precedenti accordi commerciali con la Cina.
La Germania fece lo stesso, ritirando gli addetti militari e qualsiasi fornitura militare alla Cina dopo l'invasione giapponese del luglio 1937.
L'Italia aderì al patto Anti-Comintern il 7 novembre 1937, riconoscendo il Manchukuo il 29 novembre e spedendo, il giorno seguente, al Giappone i primi aerei "Cicogna".
All’interno dei trattati commerciali sopracitati, era presente anche l'ordine dei fucili "Tipo I".
La Germania fece lo stesso, ritirando gli addetti militari e qualsiasi fornitura militare alla Cina dopo l'invasione giapponese del luglio 1937.
L'Italia aderì al patto Anti-Comintern il 7 novembre 1937, riconoscendo il Manchukuo il 29 novembre e spedendo, il giorno seguente, al Giappone i primi aerei "Cicogna".
All’interno dei trattati commerciali sopracitati, era presente anche l'ordine dei fucili "Tipo I".
SVILUPPO
All'inizio del 1938 il Ministero della Difesa giapponese offrì al governo italiano un contratto per la produzione di circa 130.000 fucili, ufficialmente destinati al "Governo del Manchukuo per scopi di addestramento".
La richiesta era per un'arma completamente nuova, preferibilmente con una meccanica e un design simile al fucile Type 38 giapponese, all'epoca il fucile standard dell'Impero del Sol Levante. Si richiedeva espressamente che l'arma fosse in calibro 6,5x50 Arisaka e che fosse compatibile con la baionetta Type 38; altre caratteristiche si sarebbero potute discutere e rivedere in base alle necessità produttive. L'importo totale stanziato per questo progetto fu di 10 milioni di yen e la richiesta iniziale era che queste armi venissero consegnate a partire dal dicembre 1938. L'Arsenale di Terni progettò un fucile costruito su azione Carcano, utilizzando calciatura e parti metalliche quasi identiche a quelle utilizzate nel Type 38, compresa la famosa calciatura "spezzata".Nel mentre, veniva allestita la linea di produzione per le canne in 6,5x50. Nel maggio/giugno 1938 il ministero della Difesa giapponese e il governo italiano, tramite le missioni diplomatiche in Giappone, iniziarono a scambiarsi una serie di telegrammi per definire i dettagli della produzione finale. L’Arsenale di Terni offriva due possibilità: - Un fucile con lastrina integrale “Mannlicher”, come quello in uso nei Carcano, caricabile con clip di tipo italiano, dal costo di 65 yen (350 lire) e pronto per esser consegnato entro 9 mesi. - Un fucile con serbatoio in stile Mauser, caricabile con lastrine giapponesi, del costo di 75 yen (400 lire) e pronto per essere consegnato dopo 12 mesi. I dettagli finali furono definiti nel settembre 1938, con i giapponesi che ordinarono 130.000 fucili con caricatore tipo Mauser, spendendo un totale complessivo di circa 9,6 milioni di yen dei 10 milioni stanziati. I 400mila yen avanzanti furono utilizzati per acquistare altre munizioni antiaeree. |
Japanese center for Asian historical recordsFoto di Ugo Venturoli |
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Foto di J. Anderson
PRODUZIONE ED USO
Una volta terminata la produzione di tutte le canne, Terni le inviò a tre diversi stabilimenti per produrre le altre componenti ed assemblare le armi. Questi erano:
- SFARE Gardone Val Trompia, che assemblò la metà dei fucili totali, con prefisso seriale A-F
- Fabbrica Nazionale d'Armi - Brescia, che assemblò un quarto dei fucili totali, con prefisso seriale G-I
- Fabbrica d'Armi Pietro Beretta - Gardone V.T. , che assemblò un quarto dei fucili totali, con prefisso seriale J-L
Tutte le armi prodotte furono testate dalla SFARE Gardone V.T., con munizioni fornite dal governo giapponese: vennero inviate 650mila cartucce del 6,5x50 Arisaka, gli italiani ne utilizzarono circa 390mila e rimandarono indietro il restante con l'ultimo carico di armi.
L'Arsenale di Gardone fece prove di tiro, controllò le parti, le tolleranze e preparò i fucili per la spedizione finale.
Spesso, a testare i lotti e per controllare a campione le armi, si presentava a Gardone V.T. una commissione tecnica del Ministero della Difesa appositamente arrivata dal Giappone.
Le armi furono spedite in sei carichi diversi, di circa 20.000 armi ciascuno, tra il dicembre 1938 e il dicembre 1939.
Il contratto fu espletato nel marzo 1940, quando i giapponesi effettuarono l'ultimo pagamento.
Essendo molto simili ai fucili Type 38, ma diversi in termini di parti di ricambio, i fucili Type I vennero inviati in diverse zone dell'Impero Giapponese, solitamente in piccoli lotti, in modo da averli in ordine e armare unità specifiche, per facilitare la logistica dei pezzi di ricambio.
Sia la Marina che l'Esercito giapponese ricevettero questi fucili, senza preferenze particolari per l'una o l'altra forza armata.
Si trattava semplicemente di fucili di riserva, acquisiti per favorire accordi diplomatici, pronti per essere utilizzati in modo efficiente dalle unità di seconda linea che non avevano bisogno di un flusso costante di ricambi e che non avrebbero dovuto subire alcun tipo di logoramento legato ad un teatro bellico.
Alcuni di questi fucili presentano un calcio accorciato, con circa 2 cm rimossi dal lato del calciolo, per risultare più comodo per alcune unità giapponesi. Questa pratica era già diffusa con i Type 38 e verrà portata avanti con i successivi Type 99.
- SFARE Gardone Val Trompia, che assemblò la metà dei fucili totali, con prefisso seriale A-F
- Fabbrica Nazionale d'Armi - Brescia, che assemblò un quarto dei fucili totali, con prefisso seriale G-I
- Fabbrica d'Armi Pietro Beretta - Gardone V.T. , che assemblò un quarto dei fucili totali, con prefisso seriale J-L
Tutte le armi prodotte furono testate dalla SFARE Gardone V.T., con munizioni fornite dal governo giapponese: vennero inviate 650mila cartucce del 6,5x50 Arisaka, gli italiani ne utilizzarono circa 390mila e rimandarono indietro il restante con l'ultimo carico di armi.
L'Arsenale di Gardone fece prove di tiro, controllò le parti, le tolleranze e preparò i fucili per la spedizione finale.
Spesso, a testare i lotti e per controllare a campione le armi, si presentava a Gardone V.T. una commissione tecnica del Ministero della Difesa appositamente arrivata dal Giappone.
Le armi furono spedite in sei carichi diversi, di circa 20.000 armi ciascuno, tra il dicembre 1938 e il dicembre 1939.
Il contratto fu espletato nel marzo 1940, quando i giapponesi effettuarono l'ultimo pagamento.
Essendo molto simili ai fucili Type 38, ma diversi in termini di parti di ricambio, i fucili Type I vennero inviati in diverse zone dell'Impero Giapponese, solitamente in piccoli lotti, in modo da averli in ordine e armare unità specifiche, per facilitare la logistica dei pezzi di ricambio.
Sia la Marina che l'Esercito giapponese ricevettero questi fucili, senza preferenze particolari per l'una o l'altra forza armata.
Si trattava semplicemente di fucili di riserva, acquisiti per favorire accordi diplomatici, pronti per essere utilizzati in modo efficiente dalle unità di seconda linea che non avevano bisogno di un flusso costante di ricambi e che non avrebbero dovuto subire alcun tipo di logoramento legato ad un teatro bellico.
Alcuni di questi fucili presentano un calcio accorciato, con circa 2 cm rimossi dal lato del calciolo, per risultare più comodo per alcune unità giapponesi. Questa pratica era già diffusa con i Type 38 e verrà portata avanti con i successivi Type 99.
Movimentazioni e Rese documentate
- Nel marzo del 1940 furono inviati 2000 fucili al Governo Nazionale Riorganizzato della Repubblica di Cina (Governo Wang Jingwei), sostanzialmente un regime fantoccio installato a Nanchino dai giapponesi per controllare meglio il territorio cinese occupato.
- 1000 fucili furono inviati nel marzo 1940 al governo autonomo di Mengjang, sostanzialmente un regime fantoccio installato nella regione della Mongolia Interna dai giapponesi, che venne assorbito nella Governo Nazionale Riorganizzato della Repubblica di Cina nello stesso anno. - 100 fucili andarono all'arsenale di Nagoya, per le guardie dell'arsenale e presumibilmente per uso antiaereo. - Diverse unità della Marina imperiale giapponese ricevettero questi fucili, principalmente per uso addestrativo. - 1700 fucili furono catturati ai Marines giapponesi di stanza a Shanghai - 224 furono catturati a soldati della Guardia dell'Isola Zhōushān (unità navale della Flotta dell'Area Cinese, di stanza vicino a Shanghai) - 563 furono catturati al Raggruppamento Navale "Hario" |
Japanese center for Asian historical records, con note segnate da Anderson e collaboratori |